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lunedì 12 maggio 2014

QUEL POLIZIOTTO DIMENTICATO di Roberto Saviano

Roberto Mancini aveva indagato sui rifiuti tossici nella Terra dei Fuochi. Pochi giorni fa è morto di tumore, “malattia professionale”. Ma tra i suoi colleghi che difendono i loro compagni accusati di violenze, nessuno si ricorda di lui.
La realtà è sempre complessa e lo è ancor di più se si prova a renderla facile, a semplificarla per guadagnare il consenso. O quando si tenta di appiattirla al servizio di comode logiche di appartenenza. Nonostante io sia scortato dai Carabinieri, e conosca talento e abnegazione degli uomini dell’Arma, non posso ignorare che i casi di Stefano Cucchi e Riccardo Magherini gettano ombre sulle forze dell’ordine, e le gettano tanto più perché la prima reazione delle autorità è stata tentare di minimizzare.
Di fronte ai sospetti dell’opinione pubblica chi dovrebbe rendere conto con chiarezza ai cittadini tende a rispondere derubricando i comportamenti violenti dei poliziotti in eccessi colposi. Lo fanno per difendersi meglio sul piano giuridico, ma questo determina la sostanza, e finisce per erodere la credibilità delle istituzioni.
C’è un’altra strategia poi, sempre la stessa, intollerabile. Si scava nella vita del morto per dimostrare che era un poco di buono. Che era un drogato. Che era un disadattato, un marginale. E così l’attenzione si concentra su vizi presunti o reali del morto senza chiedere conto a chi lo ha visto vivo per l’ultima volta come quel corpo si sia procurato ferite e contusioni mortali.
Ci sono poi fatti che non possono passare sotto silenzio e che non è possibile non stigmatizzare. L’applauso ai poliziotti condannati per l’omicidio di Federico Aldrovandi durante il congresso del Sindacato autonomo di Polizia (Sap) è un atto vergognoso, ma l’indignazione non basta più.
La strategia è ormai chiara: garantire ai poliziotti la serenità che qualunque cosa accada – possono sbagliare, finanche uccidere ed essere condannati – quel sindacato sarà sempre al loro fianco. Il segretario generale del Sap, Gianni Tonelli, trova spazio sulla peggiore stampa italiana, e da quei pulpiti arriva ad affermare una cosa che fa accapponare la pelle, ovvero che la polizia è stanca di stare sulla difensiva. Affermazione gravissima, che varrà la pena di ricordare quando il prossimo poliziotto calpesterà un essere umano credendolo uno zaino.
C’è poi il meccanismo per disinnescare le critiche che fa leva sull’eroismo e sull’onestà della stragrande maggioranza di poliziotti e carabinieri. Se un poliziotto sbaglia, si ricorda la scorta di Giovanni Falcone morta durante il servizio, senza farsi scrupoli nell’accostare persone oneste morte da eroi ad assassini in divisa. Spacciano l’appartenenza al corpo per garanzia, ma le azioni e le volontà sono individuali. Un uomo salvato da un poliziotto non giustifica un uomo ammazzato o maltrattato da un altro poliziotto: è una banalità, ma deve essere chiara, altrimenti non sarà mai possibile raccontare un’altra polizia. Una polizia che non riceve applausi, che lavora in silenzio, che vive e muore in silenzio.
Roberto Mancini è stato un poliziotto vero. È morto lo scorso 30 aprile, ucciso da un tumore sviluppato per aver fatto bene il proprio lavoro. Da commissario della Criminalpol, negli anni Novanta, Mancini aveva indagato sul traffico di rifiuti tossici in Campania e compiuto continui sopralluoghi nella Terra dei fuochi. Già nel 1996 aveva denunciato un consistente e pericoloso traffico di rifiuti, facendo nomi e cognomi. Uno dei protagonisti assoluti di quel traffico, l’avvocato Cipriano Chianese, oggi è agli arresti domiciliari dopo che – secondo le accuse – avrebbe smaltito illegalmente rifiuti provenienti dal Nord, costruendo un impero economico. A Chianese sono stati confiscati beni per 82 milioni di euro; Mancini ha ricevuto dallo Stato solo 5mila euro come indennizzo per il cancro che alla fine l’ha portato alla morte.
Ho cercato ovunque una dichiarazione di Gianni Tonelli su Roberto Mancini, ma non ho trovato nulla.
Dopo Genova, dopo i casi Cucchi, Uva, Aldrovandi, non possiamo più solo indignarci. C’è bisogno di una riforma legislativa a tutela della stragrande maggioranza di poliziotti e carabinieri che svolgono il proprio lavoro con senso di responsabilità. È il momento di introdurre il reato di tortura. Solo in questo modo si darà la possibilità effettiva al cittadino di sentirsi tutelato. E ai corpi di polizia di non vedere sviliti il loro lavoro e la loro credibilità a causa di chi non merita di vestire alcuna divisa.

  10 maggio 2014