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sabato 7 settembre 2013

Oltre l'Imu: ora una patrimoniale vera

La tassa sulla casa è stata protagonista degli ultimi mesi, dalla campagna elettorale fino all'epilogo dello scorso agosto. Non si è parlato, però, di un’imposta ordinaria sulla ricchezza che pure è possibile. Vediamo come con il contributo di RUGGERO PALADINI*

Il Consiglio dei ministri di fine agosto è stato dominato dall’Imu sulla “prima casa”, cioè la casa di proprietà della famiglia residente; a prima vista potrebbe apparire strano che un prelievo che rappresenta circa lo 0,5 per cento delle entrate pubbliche assuma tanta importanza. In effetti, l’abolizione di questo prelievo era il pezzo forte della campagna di Berlusconi (il quale, per la verità, aveva aggiunto anche la restituzione di quella pagata nel 2012); poiché circa il 57 per cento delle famiglie versa l’imposta (225 euro in media), la proposta aveva un preciso sapore elettorale e, in previsione di un ritorno alle urne, per il Cavaliere era importante poter dire: vedete, realizzo le promesse.

Al momento, e in attesa delle misure che dovrebbero essere varate con la legge di stabilità del 15 ottobre, è stata eliminata la prima rata, mentre per la seconda c’è un impegno politico, ma non ci sono ancora le risorse; accanto agli oltre due miliardi di euro, c’è poi da aggiungere il miliardo che serve a scongiurare l’aumento dell’Iva per l’ultimo trimestre dell’anno. Ma non finisce qui. Per l’anno prossimo gli stessi soggetti dovranno pagare la Service tax (che in realtà si compone di due tasse, la Tari per la nettezza urbana e la Tasi per i servizi generali). Dalla Service tax dovranno uscire le stesse somme dell’Imu e delle tasse sulla nettezza urbana, ma c’è la promessa di un contributo statale di due miliardi (e, ovviamente, al momento non si sa da dove usciranno fuori i due miliardi). Del resto, stiamo parlando di come finanziare le spese degli enti locali, e in tutto il mondo gli immobili, tutti gli immobili, sono un’ovvia base imponibile per il finanziamento; tutto il resto, significa prendere per il naso i cittadini.

L’imposta patrimoniale è un’altra cosa. Da quando è scoppiata la crisi finanziaria, e il debito pubblico ha ricominciato a crescere, il tema è tornato di attualità. Per la verità, se n’è parlato in due modi differenti, sia come imposta straordinaria volta ad abbattere il debito pubblico, sia come imposta ordinaria, volta a ridurre l’imposizione sui redditi. La differenza tra le due imposte consiste nel fatto che l’imposta straordinaria è un prelievo una tantum, di cospicua entità (da dieci a venti punti di Pil), che il contribuente non può pagare ricorrendo al suo flusso di reddito (salvo casi particolari), ma attingendo ai risparmi finanziari e liquidando proprietà immobiliari e ricchezze reali di vario genere.

L’imposta ordinaria invece è un’imposta che si paga con il reddito, ma la cui base imponibile non è misurata dal reddito stesso, ma dal valore del complesso dei beni. Qui vorrei occuparmi dell’imposta ordinaria, in quanto non credo che l’imposta straordinaria sia una scelta valida. Per poter abbattere in modo significativo un debito pari al 130 per cento del Pil (cioè nell’ordine dei 2.000 miliardi), sarebbe necessario un prelievo sui 300 miliardi; il risparmio di spesa di interessi sarebbe nell’ordine di un solo punto di Pil. La mazzata sull’economia sarebbe fatale. Questo per non parlare dei problemi di liquidità che i contribuenti dovrebbero fronteggiare (comunque, una serie di punti che toccherò a proposito della patrimoniale ordinaria valgono anche per quella straordinaria). L’imposta personale sul patrimonio è un’imposta necessariamente statale. Un contribuente può avere immobili in diversi comuni, può avere azioni di società italiane o estere; tutti i valori confluiscono in capo al soggetto. Nei pochi paesi che mantengono questo tipo d’imposta, come in Francia, essa si applica solo sulle persone fisiche, non sulle persone giuridiche; il patrimonio delle società è attribuito in capo ai proprietari.

Vediamo ora i vari aspetti dell’introduzione di un’imposta sul patrimonio. Un primo problema è quello dell’unità impositiva di riferimento, ovvero la scelta tra l’individuo o una qualche definizione di nucleo familiare. In Francia l’imposta grava sul foyer fiscal; la definizione è un po’ più ampia di quella che vale per l’imposta sul reddito, nel senso che anche senza matrimonio o Pacs due persone che convivono dovrebbero versare insieme l’imposta. In effetti, la scelta della famiglia sembra opportuna; questo tipo d’imposta prevede infatti un abbattimento di base (attualmente in Francia pari a un milione e 300.000 euro), per cui se fosse su base individuale l’abbattimento potrebbe moltiplicarsi a seconda dei membri della famiglia; oppure bisognerebbe ridurre significativamente la soglia di abbattimento.
 
In Italia, dove l’Irpef è invece su base individuale, dovremmo scegliere la definizione di nucleo familiare. Ne abbiamo una per quel che riguarda gli Anf (assegni al nucleo familiare), ma esclude le coppie non sposate, il che può portare a eludere l’imposta (in Francia vi deve essere una separazione legale perché l’imposta venga pagata separatamente, mentre, come accennato, le coppie di fatto la devono pagare insieme). La definizione deve poi decidere il caso in cui i coniugi abbiano residenze separate (cosa incentivata dal trattamento privilegiato riservato alla “prima casa” dall’Imu e prima dall’Ici); deve decidere sul caso dei figli maggiorenni che hanno invece la residenza coi genitori. Una volta risolto il tema dell’unità impositiva, il secondo è quello della definizione dei valori patrimoniali. Partiamo dagli immobili che costituiscono la componente principale della ricchezza delle famiglie italiane.

È evidente che i valori stabiliti dall’Imu non sono adeguati; anche dopo aver portato da 100 a 160 il numero per il quale bisogna moltiplicare la rendita catastale, mediamente questo valore costituisce il 40 per cento del valore stimato del patrimonio residenziale. Ma questo dato medio è frutto di valori che, a seconda delle zone, possono scendere o salire molto, arrivando al 100 per cento o più, o scendendo al 20. È chiaro dunque che il valore dell’immobile dovrebbe essere quello che si realizzerebbe nel caso di vendita, in un certo periodo di tempo. Così è in Francia, dove per le imposte locali sugli immobili (taxe foncière e taxe d’habitation) si usano le rendite catastali, ma per l’impot sur la fortune si valuta il valore di mercato dell’immobile. Attualmente, in Parlamento stanno portando avanti la legge delega curata da Vieri Ceriani come sottosegretario del governo Monti e recuperata nell’attuale legislatura. Ma i tempi per arrivare a un catasto parametrale sono lunghi (si parla di tre-quattro anni). Nel frattempo (e questo discorso è valido anche per le imposte locali, come l’Imu o la istituenda Service tax), si potrebbe ricorrere ai valori stimati dall’Osservatorio immobiliare dell’Agenzia del territorio, che ha effettuato delle stime piuttosto attendibili delle abitazioni. Per prudenza, si potrebbe abbattere quei valori di un 10 per cento.

Quanto agli immobili non residenziali, si dovrebbe ricorrere a diversi metodi di stima, tenendo conto delle rendite catastali, quando esistono, o dei costi di costruzione, del tempo in cui sono stati costruiti e così via. Per quel che riguarda le attività finanziarie, si pone un problema relativamente al valore delle azioni e delle quote partecipative delle Spa e delle Srl. Questo perché il numero di società quotate in Borsa, con valori quindi oggettivamente misurabili, nel nostro paese è basso. La maggioranza delle imprese è costituita da società non quotate o Srl. Il valore delle quote deve, in questi casi, essere ricostruito sulla base del bilancio patrimoniale delle società, dato che non ci si può certo fidare di autodichiarazioni. Nel caso di piccole imprese nel settore dei servizi, la componente più importante è l’avviamento, ma sarà possibile valutarlo solo se inserito nel bilancio (per esempio, perché acquistato). Esistono altri beni che nell’aggregato non pesano molto, ma che non sarebbe giusto trascurare.

Per l’arredamento delle case il metodo più semplice è quello che viene usato in Francia, dove l’insieme viene valutato in un 5 per cento del valore dell’immobile. Nel caso di beni di particolare valore si può invece ricorrere ai valori dichiarati in sede di assicurazione. Sommando tutti i valori patrimoniali che fanno capo alla famiglia (una volta che sia stata definita in modo preciso) bisogna procedere a detrarre le passività finanziarie, che sono prevalentemente i mutui per la casa. La base imponibile è stimata in circa 7.000 miliardi di euro. Stabilendo una deduzione di 800.000 (quella fissata in Francia fino al 2011) la base imponibile si dimezza (3.600 miliardi); applicando le aliquote ai diversi scaglioni (da 0,55 fino a 1,8 per cento per patrimoni superiori a 17 milioni) si ottiene un gettito sui 13 miliardi. Se la soglia di esenzione viene aumentata, il gettito si riduce in modo più che proporzionale, perché alcuni contribuenti non versano più l’imposta e altri la riducono. Una soglia di un milione e 300.000 ridurrebbe a tre miliardi il gettito. Tredici miliardi sono quasi un punto di Pil, e consentono, per esempio, una significativa modifica dell’Irpef a favore dei redditi medio-bassi, in particolare dei lavoratori dipendenti e dei pensionati. Con tre miliardi invece si può ritoccare le detrazioni di dipendenti e pensionati, ma non cambiare significativamente la struttura dell’imposta.

Ovviamente, l’imposta patrimoniale incontra resistenze molto forti, anche di tipo psicologico. Sembra che l’anno scorso un ammontare tra i 100 e i 150 miliardi siano usciti dall’Italia per sottrarsi all’ipoteca eventuale dell’imposta. In campagna elettorale Bersani aveva accennato a un’imposta personale limitata agli immobili, perché gli immobili non possono fuggire (almeno non in tempi brevi). L’Agenzia delle entrate è stata dotata di notevoli poteri di controllo delle attività finanziarie, e questo renderebbe più facile la gestione dell’imposta, ma le possibilità di aggirarla sono molte (basta pensare al fenomeno dei prestanomi, molto diffuso), e richiederebbero un’amministrazione potenziata, anche dal punto di vista numerico.

* docente di Scienza delle finanze alla “Sapienza” Università di Roma
 
tratto da rassegna.it